venerdì 23 settembre 2011

Quando ti accorgi di essere un marziano...

Alcuni marziani hanno le antenne in testa, altri hanno le orecchie a punta, altri ancora gli occhi fuori dalle orbite. Alcuni marziani hanno la pelle verde, altri i contorni grigi, altri sono rossi come pesciolini in onore del pianeta che rappresentano.
Lui non ha alcuna di queste caratteristiche, a parte gli occhi un po' a palla e degli strani tagli vicino al padiglione auricolare destro. Lui ha la pelle come tutti noi, forse un po' bianchiccia a volte, ma crudelmente rossa solo quando viene toccata senza pietà dal solleone agostano.
Lui parla la nostra lingua, gesticola per esprimersi meglio, come se i movimenti delle mani disegnassero su una tela i suoi modi di vedere le cose. Nonostante ciò, a volte si sente un marziano. E, strano a dirsi, sono proprio gli eventi terreni che danno forza alle sue certezze.
Aveva una fidanzata di lungo corso con cui, dalla fine della storia, si sentiva due o tre volte l'anno. Credeva di averci mantenuto buoni rapporti. L'ha cercata per darle una notizia spiacevole e quella, con fare eroico, gli ha detto che le sue saltuarie chiamate davano fastidio al nuovo fidanzato. Chiamalo -ha suggerito con maturità- così gli spieghi che non c'è niente tra di noi.
Mentre lui controllava la presenza di antenne tra i capelli tagliati di fresco, si è palesata un'altra donna del suo passato. Ricorda solo le parole rabbia e infantilismo appese ai suoi giudizi da maestrina, capace solo di sgridare senza capire e di urlare senza motivo.
Appurato che le sue orecchie erano stondate in cima, decise di scaricare la posta elettronica. Gli apparve una mail di sua cara amica lo accusava di essere freddo nei suoi confronti, dopo che, qualche mese prima, era stata proprio lei a intimargli di prendere le distanze.
A quel punto agì di imperio, si tinse la pelle di verde e partì alla volta del pianeta rosso. Non vide creature con le antenne sulla testa, nè extraterresti con gli occhi fuori dalle orbite o marziani con le orecchie a punta. Trovò solo un pesciolino, naturalmente rosso.

venerdì 2 settembre 2011

Divertente

Piccola. Non di età, ma di centimetri. Ben venti più bassa di lui, ma molto più intelligente. Aveva l'aspetto di chi ha un tesoro e non sa di possederlo, di chi parla senza essere banale, di chi abbellisce un pensiero con un sorriso che, fino a quel momento, ha tenuto nascosto.
Lui la guardava sorseggiare il suo spritz annegato nel ghiaccio e ne scorgeva la lieve abbronzatura figlia della protezione trenta a prova di qualsiasi raggio solare. Era divertente. Il suo modo di raccontare la vita lo metteva di buon umore, allonanava i pensieri negativi di quei giorni, lo rendeva perfino gradevole.
Fumava camel blue mentre aspettava il negroni sbagliato, e rideva mentre parlava dei disastri del lavoro. C'era qualcosa di affascinante nella sua semplicità. Ed era elegante la leggerezza con cui si lasciava prendere in giro.
Il negroni se ne andò via con la rapidità con la quale era arrivato, le risate diventavano sempre più copiose fin quando un botto trasformò le chiacchere in un gelido silenzio. La cameriera, quella dello spritz e del negroni, aveva urtato in cliente, versandogli addosso la pasta al ragù, che ora campeggiava sulla sua bianca camicia.
Mentre il livello delle chiacchiere tornava alla normalità, lei sgranò i suoi grandi occhi e si lisciò i lunghi capelli con le piccole mani: l'orologio aveva sentenziato che era tardi e doveva rientrare.
La accompagnò alla macchina, e, nel salutarla si sporse verso di lei. Un'ora dopo erano ancora lì.

sabato 20 agosto 2011

Il coraggio di non dirglielo

Un piccolo fruscio all'apice del silenzio. I rami degli alberi che circondavano la spiaggia ne furono scossi. Un secondo, non un attimo di più, ma tanto bastò a svegliarlo dal torpore in cui era caduto in quel decimo giorno di vacanza.
Aperti gli occhi, un fascio di luce lo travolse e lo portò di nuovo alla realtà. Era disteso su una spiaggia nera, sentiva sulla schiena i grossi granelli di sabbia che lo infastidivano, ma rimase immobile, in quella posizione, ad ammirare il mare.
Davanti a quello specchio d'acqua calmo, i suoi amici si scambiavano acrobazie coi racchettoni, più attenti a non urtare sassi con i piedi che alla direzione, più che casuale, in cui si muoveva la pallina.
La sua mente però non andava di pari passo con il suo sguardo, ma ne viveva sganciata, cristallizzata nei pensieri che l'avevano attraversata fino ad un attimo prima.
Si era destato con lei nella testa. Una lei nuova, avrebbe giurato, che niente aveva da spartire con le idealizzazioni che lo avevano rapito nei mesi precedenti.
Una lei normale, avrebbe pensato, più vicina al suo cervello ancor prima che al suo cuore. Una lei futura, avrebbe sperato, dato che nel presente non avrebbe certamente potuto viverle al fianco.
Con quest'immagine nella testa si girò su un lato, e sentì forti i granelli pungerlo.
Il sole stava proiettando gli ultimi raggi di quel pomeriggio agostano e i suoi amici erano ancora intenti nelle acrobazie, nel tentativo -spesso vano- di non far cadere la pallina blu sopra la spiaggia nera.
Si chiese se fosse giusto dirglielo, se fosse corretto informarla di ciò che lui sentiva. Si ritrovò disteso e pensieroso, quando un altro fruscio lo condusse lentamente in un sonno purificatore.

giovedì 30 giugno 2011

La traversata nel deserto

C'era una porta a spinta tra lui e il futuro, foderata di verde con un'apertura al centro. Da lì spiava l'atteggiamento dei commissari che lo avevano esaminato: sembravano tranquilli. Chi rideva, chi scribacchiava, chi passeggiava su e giù per l'enorme aula penale al piano terra della Corte d'Appello.
Si sentiva svuotato e prosciugato dopo due settimane di clausura che lo avevano trascinato verso i punti più bassi della sua vita da studente. A due giorni dalla meta si era bloccato, gli sembrava tutto inutile, come il lento avvicinarsi ad un eclatante fallimento. Amici e parenti si aspettavano tanto da lui, e lo sapeva. Non voleva deluderli e temeva come un matto di farlo.
Aveva pianto. Da solo. Aveva assaporato le lacrime di nervosismo, di rabbia e di tensione che gli erano scivolate sul viso. Si era agitato molto e, complice il caldo, non riusciva a respirare bene. Quindi si era disteso sul divano ed era caduto in un sonno profondo.
Aveva sognato l'esame, le domande e poi, all'improvviso, si era trovato nel deserto. Camminava scalzo, in cerca dell'oasi: eccola là, sentiva l'acqua scorrere. Iniziò a bere ma il sapore era strano: forte e dolciastro allo stesso tempo. L'aveva sentito bene quel sapore mentre piangeva qualche minuto prima. Si risvegliò, era sudato. Gli occhi gonfi, la fronte rossa. Allo specchio vide sotto l'attaccatura dei capelli una vena più grossa e paonazza, che gli ricordava Harry Potter.
Ce la doveva fare, si disse. Il deserto che aveva sognato non erano altro che gli ultimi due anni della sua vita, persi in mezzo a una pratica forense di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Spaesato e senza meta, l'unico suo obiettivo era l'esame, e ora che era arrivato fin lì non poteva fallire.
L'atrio della Corte d'Appello era ancora in attesa del verdetto. Vide i commissari sedersi, ormai il suo destino era deciso. Si aprì la porta, ne uscì una giovane cancelliera. Sentì quel poco sudore che ancora aveva in corpo percorrergli velocemente la schiena. La ragazza gli fece cenno di entrare.
Appena dentro, il Presidente si alzò in piedi, segno di un'imminente proclamazione. -E' andata bene- iniziò quello -lei ha passato l'esame di Avvocato, complimenti!-.
La tensione accumulata si sciolse piano piano e sul suo viso comparve un abbozzo di felicità. Ce l'aveva fatta a modo suo. Studiando e lavorando, senza lasciare niente e con una buona dose d'incoscienza. Firmò il verbale, prese il foglio con la buona notizia e uscì dall'aula.
Vide suo babbo in lacrime. Si bagnarono anche i suoi occhi, stavolta di gioia.

lunedì 13 giugno 2011

Profondo nero

Ci era ricaduto. Un'altra volta. Autocommiserazione fatta di cemento, considerazioni senza un'ombra di luce, solitudine assoluta e asfissiante, come quella che ti prende quando sei svuotato da ogni emozione, in un locale buio che ti impaurisce più per i suoi risibili confini che per l'oscurità che lo avvolge.
Se lo era promesso seriamente: non le avrebbe dato retta, non l'avrebbe più voluta vedere nè sentire, e nemmeno immaginare nella sua trascendente bellezza che l'aveva colto impreparato in un mondo di calcoli e di schemi. Gli era sembrata finalmente un raggio di sole in quella notte duratura delle sue emozioni. L'aveva percepita così diversa dalle altre, così spontanea, così solare. Poi erano trascorsi quei mesi, e si era accorto delle sue difficoltà, delle sue spigolature così profonde, delle sue contraddizioni più evidenti, dei suoi sorrisi un po' misteriosi che nascondevano tante diverse sfaccettature.
Ed erano arrivati i litigi e le riappacificazioni, e ne erano seguite serate piacevoli senza però che ciò valesse anche per lei. Ed erano tornate le liti, sempre meno composte, che erano sfociate nell'addio.
Quello era il momento della promessa: non avrebbe più confuso il piacere e l'amore, non la doveva più vedere. E invece, come spesso accade, le promesse si infrangono ancor prima di essere eseguite e le aveva di nuovo permesso di entrare nella sua vita e l'aveva ancora una volta amata, e, senza indugio, aveva stupidamente aperto il suo cuore. Così, le ferite appena risarcite si erano subito riempite di sangue fresco e lui aveva provato a convincerla di quello che provava senza esitazioni.
Lei, sicura di non volerlo, aveva ottenuto l'opportunità di rifiutarlo per sempre, forse presa dall'esaltazione di poter avere di meglio. Non si era fatta pregare e aveva rispedito gli inviti al mittente, con mille scuse ma senza un perchè.
La delusione era di nuovo alta tra le pareti della sua casa dove viveva da uomo solitario, sentiva di nuovo i dolori passati di qualche mese prima acuirsi, sentiva che non avrebbe dormito e accettò le conseguenze della notte insonne. In quell'istante decise che non avrebbe più compiuto quegli errori, che da quel momento in poi avrebbe vissuto le sue storie con il freno a mano interiore rigorosamente tirato.

venerdì 10 giugno 2011

Pensieri inutili

Palloncini. Verdi, con su scritto qualcosa. Non riusciva a leggere, eppure vedeva le lettere che formavano un arco. Alcuni gonfi, in salute, che lo sfidavano, altri piccoli e mosci, senza significato. Ne prese uno di quelli più grandi. Non l'avrebbero avuta vinta. Doveva dare un senso a quella parola sconnessa. Forse era un nome. Nella foga lo strinse troppo forte e, d'un tratto, sotto la I si aprì uno squarcio enorme. Ne seguì un botto che lo riportò al mondo reale.
Il suono della sveglia non sarebbe arrivato: troppo lontane ancora le nove per poter sperare di dormire ancora. Aveva esagerato col cibo e ne avvertiva le conseguenze. Sentiva il bisogno di alzarsi, e così decise di disinnescare il suo cellulare a orologeria per prepararsi un tè al limone, prima di iniziare la battaglia contro uno dei sei libri che gli facevano compagnia ogni giorno, nemmeno fossero badanti che ti assistono sul finire della tua esistenza.
Tuttavia sapeva che non era solo il suo stomaco ad impedirgli il sonno mattutino, a volte così penetrante da renderlo assolutamente invulnerabile fino alle undici antimeridiane.
Le sensazioni che erano immerse nell'intestino in mezzo ai pici acciugati non avevano un buon sapore, erano piene di interrogativi, appesi come panni bagnati, che creano pozze con dentro dubbi e amarezze, che non scompaiono per una divertente serata ventosa o una triste giornata di sole.
Era geloso e lei lo sapeva, e forse questa era la cosa più facile da capire. Ma le voleva bene e le differenti aspirazioni non avevano per nulla intaccato questo sentimento. Questo, almeno per lui, non era in discussione. A differenza sua, purtroppo, coglieva molto bene l'opportunismo e l'ipocrisia che, come elio, gonfiavano qualche palloncino che vagava per l'etere intorno a lei, più immerso nella speranza che nell'aria della quale si alimentava giornalmente. Forse era questo che gli dava realmente noia.
Ma erano solo pensieri assonnati dettati dalla pressione di settimane intense. Doveva fregarsene e tacere: in fondo non erano affari che lo riguardavano. I palloncini, se non scoppiano, prima o poi volano via. Meglio preoccuparsi dei libri, che, fedelmente, rimangono lì ad aspettarti.

mercoledì 8 giugno 2011

Dieci anni, un esame

Lo studio stressante e l'incontro fiume della sera prima lo avevano riportato indietro di dieci anni, quando era in procinto di dare l'orale di quell'esame odioso chiamato maturità. Si presentava con gli scritti più che sufficienti, ma senz'altro non all'altezza di quanto si sarebbe aspettato.
Aveva un tarlo nella testa in quella mattina di due lustri or sono, e, strano a dirsi, non erano le temute domande dei commissari o le conseguenze delle sue erronee risposte. Ripensava all'incontro con lei.
Le era andato dietro per mesi e mesi con un modesto successo, l'aveva corteggiata senza respiro e poi d'improvviso i rapporti si erano raffreddati come una bottiglia di vodka in un surgelatore, lasciando spazio in lungo e in largo al ghiaccio, nemmeno tanto alcolico.
Immerso nella precarietà che ti affligge quando prepari un esame enorme -dove tutto ti sembra relativo e forse lo è- credeva di averla dimenticata. Era convinto di aver cancellato dalla testa i suoi inspiegabili atteggiamenti, troppo scostanti per una persona razionale come lui, e di aver persuaso il suo cuore di inesperto ventenne a guardare oltre, verso un esame da preparare, verso altri orizzonti più lontani, ma in quel momento sicuramente pieni di speranza e di calore.
E invece quello che aveva visto nei suoi occhi non l'aveva lasciato indifferente. Gli era sembrata una ragazza fragile, desiderosa di essere travolta da una passione che forse nemmeno lei avrebbe voluto vivere, che gli chiedeva un gesto, un colpo deciso nella sua direzione, che le facesse vivere un'emozione in quei mesi mai provata.
Oggi come allora si interrogava su quelle parole, e le sentiva bruciare dentro, lontane e vicine in uno stesso attimo, come un pendolo che scandisce il tempo, come l'acqua che là fuori scende copiosa e ti sorprende mentre pensi che tu, così diverso, cercavi le stesse cose.

lunedì 23 maggio 2011

Uno strano destino

Esistono parole, atteggiamenti, sospiri a volte molto simili anche se non uguali. Esistono sguardi, gesti, lacune e omissioni che sono profondamente diversi. Esistono specchi che si rompono come sogni che drasticamente diventano realtà. Esistono donne in cui proietti la perfezione e che poi si rivelano delusioni, amare, difficili da nascondere, indicative del mondo che ti circonda, fatto di silenzio e falsità, di pensieri e, a tratti, di sconforto.
Quando te le trovi di fronte è difficile pensare qualcosa di positivo, è difficile razionalizzare e programmare, è impossibile guardare avanti perchè non hai più l'anima, persa in qualche sogno disincantato, in qualche illusione amareggiata, in qualche sentiero senza via d'uscita.
E ti trovi come in un senso vietato, senza idea di dove andare, senza voglia di ricominciare, con la sensazione di trovarti dentro a un barattolo di marmellata vuoto, senza più pareti trasparenti dove sbattere la testa.
E vedi nei suoi occhi il centro del cambiamento. In quell'azzurro intenso, una volta così pieno di sorpresa e di dolcezza per le tue parole, è apparsa, gelida, l'indifferenza, che ti lascia attonito, in preda ai dubbi, lontano dalla realtà. Cosa sarà stato a produrre quel cambiamento forse lo sai. Sei andato lungo e hai paura di ammetterlo.
E' un peccato, ma in quei momenti ti rendi conto di avere perso qualcosa, che non potrai essere più amico, che dovrai necessariamente sparire. Per non star male in primo luogo. Per far sì che il tempo ti permetta di non pensarci più e di far risorgere il tuo ego, più che mai sotterrato dopo aver perso, in un colpo solo, l'amicizia e quello che poteva essere l'amore ideale.
Che strano destino quello di sentirsi avulsi e rifiutati, che strano destino quello di sapersi soli in una sera di maggio.

domenica 15 maggio 2011

La latitanza

La latitanza, come l'ha chiamata un mio amico tanto tranchant quanto lucido nel descrivere questo periodo della mia vita, non è il lungo periodo di assenza che ho riservato a questo blog per motivi di studio.
Non è nemmeno una fuga organizzata e sottaciuta ai miei più cari amici, come si potrebbe pensare leggendo queste prime righe.
Non è nemmeno la canzone di Daniele Silvestri, che per inciso si chiama la paranza, e non si tratta nemmeno di una decisione irrevocabile che ho preso e devo ancora comunicare.
La latitanza è un'efficace definizione di una frequentazione precaria, di una fiammella accesa che si è subito spenta, dell'ennesima illusione -la prima del 2011- che mi ha riservato il mio periodo di singletudine.
La latitanza non è certo riferita al mio comportamento, abbastanza rispettoso, fin troppo disponibile ed ingenuo, bensì all'atteggiamento di sufficienza che mi sono trovato davanti. Un atteggiamento calcolatore e opportunista, deliberatamente provocatore, che aveva il solo obiettivo di spingermi a chiudere i rapporti.
Rabbia? Un po', per essere stato preso in giro fin dall'inzio. Mancanza di rispetto? Molta, non da parte mia purtroppo. Rimpianti? Forse il fatto di non averle trasmesso emozioni, come dice lei. Anche se non credo sia dipeso dalla mia incapacità, ma probabilmente dalla sua scarsa convinzione.
In questi giorni ho riflettuto su quanto accaduto, più come forma di futura autodifesa che come reale interesse scientifico. Non siamo mai entrati nel merito perchè lei ha preferito la latitanza alla conoscenza. E forse sarebbe stato meglio l'avessi fatto anche io.

lunedì 14 marzo 2011

Voglia di andarsene

Penso di essere terribilmente noioso a parlare delle stesse cose, sempre legate al mondo dei cuori infranti, dei sogni disillusi e irrealizzabili, sempre inerenti a una tristezza di fondo che accompagna le mie giornate, che filano via in un grigiore che un topo ci sguazzerebbe dentro senza riconoscerne i confini.
Penso di essere talmente noioso da avere fatto sbadigliare anche i miei migliori amici, che poco a poco sto sentendo meno: chi impegnato in un'agognata convivenza, chi ormai fuori da quel limbo chiamato esame in cui io mi trovo e dentro a cui non vedo alcuna luce, chi invece inspiegabilmente sparito, senza alcuna apparente giustificazione.
Penso di essere estremamente negativo in queste serate di pioggia che mi lasciano scarico, dilaniato dai pensieri e i rimpianti, dalle paure e le distanze, tra la sensazione di aver perso qualcosa e quella di non averla avuta mai.
A volte vorrei tornare indietro, vorrei poter correggere alcune fasi della mia vita, vorrei correggere i miei genitori, vorrei poterli sentire un po' più vicini di quanto in realtà non siano mai stati, troppo immersi nel loro lavoro e nei sensi di colpa per non avermi concesso un'infanzia felice.
A volte vorrei proprio sparire, andarmene, essere invisibile e vivere lontano questa depressione per poterla superare, invece di fingere di essere felice in mezzo a una festa, quando invece dentro non sento proprio niente.
Non so se la soluzione sia scappare, ma credo che una bella frattura sia l'unico modo per provare a fondare una nuova persona, meno impiccata ai pensieri che il passato qualche volta ripropone.

mercoledì 23 febbraio 2011

Segnali dal futuro

Alessandro era lì, in mezzo agli altri. I commissari che passavano su e giù per il padiglione Nord non stavano guardando nella sua direzione in quel momento. E così, lesto come un furfante, tirò fuori dalla tasca un bigliettino con sù scritta la soluzione di quel maledetto parere di civile. Ecco la sentenza tanto cercata, era la numero 127…
- Lei cosa sta facendo- disse uno dei poliziotti, che in divisa da secondino, salivano e scendevano per i lunghi corridoi accanto ai tavoli da prima elementare che fungevano da supporto per i quasi duemila candidati. - Si alzi in piedi e venga con me, ma non si vergogna alla sua età…
Alessandro non rispondeva, ma si vergognava eccome. A quasi cinquant’anni essere beccato mentre copiava all’esame di avvocato era l’umiliazione più grande della sua vita, più di quando, anni prima, la sua vecchia capa in azienda lo costrinse ad andare a comprarle il pranzo mentre diluviava in piena estate. Ovviamente non c'erano ombrelli disponibili e lui tornò in ufficio fradicio e spettinato, con la rosea pelle in bella mostra e con i falsi addominali che testimoniavano una forma persa e mai riconquistata. Tutti i suoi colleghi lo guardavano ridendo e lui si sentiva come un pesce appena preso, con l’amo a cui aveva abboccato ancora ben infilato in bocca.
La Presidente della Commissione lo guardava con aria stupefatta: non le era mai capitato di buttar fuori un suo coetaneo. Era strana, aveva qualcosa di vagamente familiare. Più che Alessandro la guardava, più aveva l’impressione di conoscerla, di averla vista da un’altra parte che non fosse il Tribunale, che non fosse un esame affollato per l’abilitazione ad una professione che egli non avrebbe mai svolto.
Ma sì, ecco dove l’aveva vista! L’aveva ospitata a casa sua, ormai svariati anni orsono. In realtà, era stata più che una semplice ospite, era stata un’amante. O meglio, era stata una di quelle storie per cui a trent'anni faresti di tutto e che ti rincorrono nelle giornate di solitudine come meteore nell'universo.
Pensò cosa ci facesse proprio lei alla presidenza della Commissione degli esami di Avvocato. Eppure, all'epoca in cui si vedevano non sembrava proprio interessata a quel genere di professione.
Si prese una pausa da quei dolci ricordi per guardarsi intorno. E fu l'errore più grande della giornata: tutti i candidati lo stavano fissando. Una persona della sua età che si presenta a un esame suscita sempre grande stupore. Una persona della sua età che tenta infruttuosamente di copiare provoca inevitabilmente grande ilarità.
Quante volte sarà stato bocciato in questi anni, pensavano ridendo i giovani candidati, animati da una certa fretta di ottenere l’abilitazione per iniziare un percorso di indipendenza dalla famiglia, in barba a quelli che invece li considerano dei bamboccioni.
Alessandro si girò nuovamente verso la Presidente e la guardava imbarazzato, sperando che non lo riconoscesse. Pensò che per lei il tempo non fosse passato: era bella come sempre.
Aveva una giacchetta rossa di lana, per ripararsi dal freddo, e una maglia scura che metteva comunque in evidenza il suo fisico ancora in forma. Sotto, pantaloni neri e scarpe col tacco, che la slanciavano, ma che rischiavano di diventare deleteri in una frenetica giornata d’esame come quella. I capelli non erano più come l'ultima volta che l'aveva vista, era tornata al colore naturale. Gli occhi, in cui il verde spiccava per contrasto, invece, erano gli stessi in cui aveva desiderato di perdersi, tanto erano profondi e incerti, tanto erano gentili e appassionati. Proprio quando i loro sguardi si incrociarono, ebbe la certezza di essere stato riconosciuto.
Alessandro non capiva che razza d’orologio fosse, non sopportava quel fastidioso ronzio che proveniva da lì. Era sempre più forte e lo mandava in paranoia. Aprì gli occhi, la sveglia stava suonando. Una vocina metallica proferiva il verbo mattutino: sono le sette. Si trovò tra le sue coperte, un po' scosso. Cercava di scrutare la sua faccia nello specchio di fronte al letto, ma la trovò sommersa dalle occhiaie. Sentiva il fastidio di un'altra nottata persa: non era all'esame, non aveva copiato, non si era trovato davanti Lei. Ma soprattutto aveva trent'anni e qualche sogno ancora a portata di mano.

venerdì 18 febbraio 2011

In mezzo

Tra una scatola semipiena di cereali al cioccolato e uno yogurt magro, tra un pacco ancora integro di Gocciole e un succo di frutta ACE, tra un morbido copriletto blu elettrico e la copiosa pioggia di Piazza Mentana.
Tra l'inquietudine del tassista che la portava sotto casa mia e l'incerta rassegnazione dell'ultima sera, tra lo sguardo complice in un bar del Duomo e quello negato nel giorno dell'addio, tra la voglia di sentirsi al cellulare in una pausa dallo studio e l'indifferenza asfissiante degli ultimi giorni. Tra un ricciolo e un sorriso, tra una frase dolce e una risposta secca.
Tra il gioioso raffreddore da contagio della settimana scorsa e gli incessanti starnuti del mesto addio di questi giorni, tra l'amore non ricambiato di inizio dicembre e quello non corrisposto di metà febbraio.
In mezzo ci sono rimasto io, che rifletto sulla mia costante mediocrità, su quella sensazione piccola e strabordante che prende il nome di inadeguatezza. Io, che ripenso alle mie indecisioni e a quanto abbia dato e ricevuto da questa storia, se così si può chiamare. A tratti mi sento impoverito da quella strana relazione e ne avverto tutta la malinconia, come coloro che aspettano e non trovano, come quelli che trovano e vengono derubati, e devono per forza ripartire da capo.
In mezzo ci rimane una sensazione di precarietà, di impalpabile sufficienza, di pesante non detto, come quando un'impalcatura cade a causa di un'enorme imperizia, e la ricerca del colpevole prende giorni e giorni, o magari mesi, e forse, chissà, anni.
In mezzo ci rimane il consiglio non ascoltato delle più care amiche, che mi avrebbe probabilmente salvato pur lasciandomi nel dubbio, ci rimane la superbia che si trasforma in onniscienza, l'eleganza che si riduce a suburra, il romanzo che diventa piccolo racconto.
In mezzo ci rimane la sua immagine, più soave di un prato primaverile, più preziosa di un'opera d'arte, ma allo stesso tempo più che mai terrena nella sua ispida concretezza, più che mai umana nella sua fervida paura e assai crudele nella sua triste verità che non ammette alcuna replica.
Tra la felicità e il fascino, appena assaporati in questi venti giorni, e l'amarezza e la delusione del day after, costanti e pungenti nel mezzo delle notti insonni, c'è la sua espressione fredda e impassibile, pronta a tagliarmi fuori come la testa di un topo da laboratorio.

martedì 25 gennaio 2011

L'appuntamento

Questa volta non si tratta di scriverle, parlarle, leggere le sue risposte, ascoltare quella voce timidamente romantica. Questa volta si tratta di vederla. Sta arrivando -così mi ha scritto- e la mia testa cerca di concentrarsi su quello che bisogna fare.
Anzitutto sistemare la camera, dove la busta delle camicie stirate è sempre in bella vista e deve essere nascosta entro i prossimi dieci minuti. Mi ci dedico velocemente, apro l'armadio e le camicie sono nello scaffale mobile (rotto ormai da tempo immemore) in un batter d'occhio. Peccato che lo scaffale mobile ceda e si porti dietro tutti gli scaffali mobili sotto di sè, in una sorta di rovinoso castello di carte di compensato.
Ricostruito l'interno dell'armadio, mi dedico a sistemare il divano, da sempre ridotto malissimo in casa mia. Metto i cuscini nella giusta posizione e ne sono soddisfatto. La morbida eccitazione dentro di me prende la forma dell'orologio targato Ikea che scandisce il passare di quei momenti di attesa.
Proprio mentre il mio conto alla rovescia si avvicina allo zero, ecco che mi ricordo il dettaglio fino a quel momento nascosto nell'ombra della curiosità mista a frenesia: non mi sono fatto la barba!
Scatto in piedi, apro la porta, cerco schiuma e lametta e comincio l'opera di deforestazione della mia faccia. Peccato che la lametta tagli una bollicina e che il sangue scorra copioso da quel piccolo e insignificante taglio.
Proprio mentre cerco di tamponare il disastro con un pezzo di carta igienica, sento vibrare il telefono. Leggo il suo nome sul display: il mio cuore è tutto un sussulto.
Mi dice che non riesce a trovare la mia strada, mi precipito giù a cercarla. Quando la vedo, capisco che è ciò questo da un mese a questa parte desideravo. Mi colpisce il suo sorriso, così ampio. Mi stupiscono i suoi occhi sinceri e i suoi riccioli infiniti. Mi piace sentirla parlare e guardarla allo stesso tempo. Di lì a poco non conterà più niente, nè la mia bollicina sanguinante, nè la piccola distanza che ci separa da casa mia.
Di lì a poco vivremo in una realtà sospesa, tanto esaltante quanto voluta, tanto dolce quanto naturale.

venerdì 21 gennaio 2011

Gente della notte

Il portone sotto casa mia si chiude violentemente. Fuori è gelo. Il freddo ti taglia come un coltello ben affilato, di quelli che vendono in televisione. La serenità è ormai un ricordo lontano: ciò che mi aspetta è buio come quell'ora del mattino, è solitario come la strada silenziosa che dà sollievo alle mie notti insonni.
Nel buio vedo una figura che mi fissa. Ha un piumino blu, con il cappuccio tirato per coprirsi dal freddo. Ha un golf chiaro, strappato all'altezza del collo alto. Ha un viso che non riesco a scorgere, fatta eccezione per un grosso taglio sulla guancia. Mi sposto velocemente per arrivare alla macchina, non so cosa voglia da me.
Mi raggiunge improvvisamente nel buio, ha la pelle bianca come un cadavere. Mi guarda con aria saccente, ormai è chiaro che sta per rivolgermi la parola.
Un po' timoroso, controllo che non abbia cattive intenzioni, pronto a difendermi in ogni caso. Lo diceva il mio oroscopo che non era una gran giornata nemmeno oggi -penso- ma così brutta proprio no.
E invece quel tizio inizia a cantare, inspiegabilmente. Lo guardo incredulo, come si guarderebbe un buffone, come si osserverebbe un tipo senza cervello. La canzone è melodiosa, non è il rock per il quale impazzisco, ma è lo stesso orecchiabile.
Parla di una passione, una soffice passione allontanata dopo una notte di incubi. Racconta di un uomo che si trova rallentato dalle paure della sua dama. Quell'uomo non capisce, si guarda intorno, cerca di scorgere tra gli eventi di quei giorni un errore, un piccolo sbaglio che abbia distrutto tutto.
Forse la pressione, forse la chiarezza di certe espressioni, forse l'onestà, forse l'intensità del desiderio con cui voleva stringerla a sè. Forse il fatto che non ci potrà mai essere solo amicizia quando hai voglia di vedere una persona e quando brami di sentirla con quella travolgente intensità.
Tutto questo cantava quella persona con il cappuccio alzato, e lo faceva con una sofferenza propria del sonno interrotto, quando speri di recuperarlo prima che faccia buio e invece rimani tutto il giorno appeso alla speranza che non sia finita lì.

martedì 11 gennaio 2011

Sogno o son desto?

L'entusiasmo, la piccola imperfezione nelle mie parole. Il leggero tremolio delle mie mani, l'impalpabile rossore sulle mie guance. Un unico pensiero, una sola emozione. Un impercettibile dubbio, un grande sogno nella mia notte.
La sua voce era leggera, lieve, soffice, passava sopra ad ogni mia risposta, aveva il potere di ammaliarmi, quasi fossi un serpente incantato dalla musica delle sue parole, dall'armonia delle sillabe che emetteva, dalla tranquillità delle sue risate.
Il suo accento era pungente come certe serate del nord-est, era un piccolo tesoro che mi sgrezzava con la sua sottile perfezione, che mi animava nemmeno fosse ossigeno e io fossi cianotico in attesa delle sue parole.
L'emozione lasciava presto spazio al dubbio, come sovente mi capita. Il dilemma è presto detto: e se una ragazza così non esistesse? E se fosse la proiezione delle mie notti insonni rivolte ad aspettarla? E se invece fosse vera, perchè non la vedo? Perchè, malgrado una così piccola distanza, non siamo ancora riusciti ad incrociare i nostri sguardi?
L'unica risposta possibile è legata al mio sogno. Un grande corridoio a dividerci, le sue parole a rassicurarmi: arrivo -mi dice mentre guardo una rivista- aspettami seduto su quel divano. Mi metto comodo, attendo fiducioso il primo appuntamento senza avere paura, con la convinzione che alcune cose siano tanto più belle, quanto arrivino con pazienza, quanto siano gustate goccia a goccia, nel buio di una notte piovosa.
Dopo che la mia attesa rischiava di farsi vana, eccola apparire da una porta bianca. E' vestita con una maglia chiara e un paio di jeans. Mentre mi avvicino per salutarla -finalmente- sento l'odore di Night, il profumo di Armani. Mi faccio avanti per baciarla, e, d'improvviso, il sogno si interrompe. Mentre cerco di svegliarmi, capisco che niente di quello che ho vissuto può essere vero: la maglia chiara, i jeans, il profumo sono tutte proiezioni della mia fase rem.
Tutto, tranne una cosa, che però non mi è permesso rivelare. Almeno fin quando rimarrà un sogno.

mercoledì 5 gennaio 2011

Caro amico ti scrivo...

Alla soglia dei trent'anni, avrebbe ormai dovuto sapere cosa fosse l'amicizia, una parola che racchiude un significato che va al di là delle otto lettere che la compongono e si promana nel profondo di un sentimento molto diverso da quello che provava in quei giorni per una ragazza da poco conosciuta. Un sentimento, quest'ultimo, carico di curiosità e di esaltazione, molto simile alla sensazione di annusare un fiore appena sbocciato e avvertirne l'impareggiabile dolcezza.
Ma l'amicizia riesce a scendere nelle viscere, ancorandosi bene a tutto ciò che è esperienza di vita e se ne alimenta, diventando più forte tanto più passa il tempo. Per questo un'amicizia tradita, offesa, dileggiata, assume un senso nauseabondo molto simile a una bolla che senti nello stomaco, consapevole di non poterla espellere.
Gli eventi della giornata l'avevano messo a dura prova, si sentiva deluso, amareggiato, spento. Molti sostenevano che lui fosse permaloso, che il suo carattere cocciuto dovesse sempre cercarsi qualcosa di cui lamentarsi e sparlare. Ma in quella notte a lui non sembrava che le cose stessero così. Pensava di aver sbagliato a mettersi a lavorare in un ambiente come quello, troppo diverso da lui, troppo frenetico e troppo gestito da un suo amico.
E' inevitabile che il lavoro logori l'amicizia, e questo lo sapeva. Quello che non sapeva è che ci sarebbe rimasto male. Quello che non conosceva era quello stato di inquietudine, di incertezza sul da farsi. Si chiedeva se convenisse lasciar perdere tutto: il lavoro, i soldi, le promesse di un contratto e tenersi l'amicizia o se andare avanti in quell'ambiente lavorativo, cercare di mantenere la stessa responsabilità e passione che lo caratterizzavano e dire per sempre addio a quella amicizia, divenuta ormai ingombrante.
Lo tormentavano le gelosie di coloro che, animati da un istinto da iena, non aspettavano altro che il momento giusto per mettere i bastoni tra le ruote, per sentir bisticciare i due grandi amici.
Più rifletteva sulla conversazione appena avuta, più si convinceva che gli avesse dato noia il tono inquisitorio con cui era stato trattato dal suo amico. Lo infastidiva una certa mancanza di fiducia che traspariva dal colloquio, risentiva ancora risuonare nella sua testa la parola folle riferita ad una sua convinzione.
L'amarezza scendeva sempre più nel profondo come il calore di un bicchiere di whiskey, come l'accetta del taglialegna nel tronco dell'albero.
Un piccolo ticchettio lo fece sobbalzare mentre pensava al modo migliore in cui avrebbe dovuto comportarsi. Si ritrovò senza pensieri, con quel piccolo mondo sempre più lontano.